Coronavirus, cosa ha scoperto la Scienza
IMMUNITÀ
Il sistema immunitario delle persone che hanno Covid-19 risponde sviluppando proteine nel sangue chiamate anticorpi (IgM e IgG) che attaccano il virus. Il rilevamento di tali anticorpi nel sangue può indicare se la persona ha avuto l’infezione in precedenza. Ma il tema è un altro. E cioè l’attendibilità di questi test rispetto a quando viene eseguito. Una revisione sistematica di Cochrane, guidati da esperti dell’Università di Birmingham, ha scoperto che per i test sugli anticorpi per covid-19, il tempismo è tutto.
La revisione di 54 studi ha messo in evidenza che i test (su quasi 16mila campioni) sugli anticorpi effettuati una settimana dopo che un paziente ha sviluppato per la prima volta i sintomi hanno rilevato solo il 30% delle persone positive al covid-19. La precisione è aumentata al 72% dopo due settimane e al 94% nella terza settimana. Non ci sono invece studi sufficienti per stimare la sensibilità dei test anticorpali oltre i 35 giorni dopo l’inizio dei sintomi.
Sul tema l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha espresso dubbi e alla fine di giugno, in Gran Bretagna 14 accademici senior hanno espresso preoccupazioni in una lettera pubblicata sul British Medical Journal, affermando che i test sugli anticorpi per il personale sanitario britannico erano stati avviati senza una valutazione adeguata. Anche in Germania, l’agenzia di prevenzione e controllo delle malattie del paese, il Robert Koch Institute, sta conducendo test su anticorpi casuali su larga scala.
Al momento, quindi, i correlati immunologici dell’immunità dall’infezione Sars-CoV-2 non sono ben definiti. Le più importanti organizzazioni (tra cui Barda, Cdc, Fda, Nih), stanno lavorando con il mondo accademico e le comunità di medici per determinare se i test sierologici positivi sono indicativi di immunità protettiva contro il virus.
Questo sforzo include la valutazione del livello di anticorpi necessari per la protezione dalla reinfezione, la durata di tale protezione e i fattori associati allo sviluppo di una risposta anticorpale protettiva. La cinetica della risposta anticorpale, la longevità degli anticorpi, la capacità degli anticorpi di proteggere dalle infezioni ripetute, il titolo protettivo dell’anticorpo neutralizzante devono ancora essere determinati. Sebbene studi sugli animali dimostrino che esiste protezione a breve termine, la dimostrazione a lungo termine nell’uomo richiede studi futuri. Quindi, in attesa di ulteriori dati, la presenza di anticorpi non può essere equiparata all’immunità da Sars-CoV-2.
Secondo chi lo ha messo in pratica, e cioè la Svezia, la risposta è no. In base agli ultimi dati, pubblicati sul Journal of the Royal Society of Medicine, solo circa il 15% della popolazione è entrato in contatto con Sars-CoV 2, mentre le stime prevedevano, per l’estate, un tasso del 40%. Nel mezzo, tra gennaio e giugno, ci sono stati oltre 5.800 decessi, un numero che si era raggiunto solo nel 1869, a causa di una grave carestia, e oltre 84.000 malati.
Altre indicazioni arrivano da uno studio pubblicato su Lancet, relativo al cantone di Ginevra, in Svizzera, dove è stato condotto un monitoraggio dettagliato di oltre 2.700 cittadini, tra inizio aprile e inizio maggio. La presenza di anticorpi è stata rilevata, nelle 5 settimane, rispettivamente nel 4,8%, 8,5%, 10,9%, 6,6% e 10,8% della popolazione, nonostante ci siano stati più di 5.000 casi nella zona. Anche nel momento peggiore della crisi, quindi, non si è sviluppata un’immunità estesa: al massimo ha interessato un abitante su dieci. La fascia più colpita è stata quella delle persone con più di 10 e meno di 65 anni.
Per nove giorni dopo la comparsa dei primi sintomi: dovrebbe essere questa la durata dell’infettività di una persona contagiata e, appunto, sintomatica, anche se si continua a rilevare il virus nei suoi tamponi (la cui presenza può essere confermata fino a 83 giorni dopo l’esordio). Il massimo del rischio si ha invece nei primi 5 giorni. Lo sostiene un’importante metanalisi di 79 studi, ancora in attesa di revisione, ma intanto uscita per opera di alcuni virologi britannici e di quelli dell’Ospedale Cotugno di Napoli i su MedRXiV , nel quale si chiariscono altri aspetti interessanti. Per esempio, se si coltiva il materiale genetico dei tamponi, ormai molto sensibili, non si riesce mai a vedere una proliferazione virale se sono passati nove giorni dal primo esito positivo. Questo accade perché molti pazienti hanno un’alta carica virale, e anche quando il virus non c’è più per molto tempo ne restano tracce. Infine, anche per gli asintomatici i giorni più a rischio di contagio sono gli stessi.
Che ruolo hanno i linfociti T? Si chiama immunità crociata, e forse per molti di coloro che si sono infettati con il Sars-CoV 2 è stato un salvavita. In sintesi, si verifica quando l’organismo entra in contatto con un microrganismo che non ha mai visto prima, ma che è simile ad altri che ben conosce. Nel caso dei coronavirus, ce ne sono almeno 4 che danno normali raffreddori, e il sistema immunitario di chi ne ha avuto uno o più abbozza una reazione con linfociti T specifici anche se non si tratta di uno di essi, ma del Sars-CoV 2. Ciò attenua la violenza della reazione e dei danni che il virus riesce a fare.
Che potesse esistere un’immunità crociata tra coronavirus era una speranza concreta, visto che sempre più studi segnalavano casi di persone (in alcune zone addirittura tra il 20 e il 50% della popolazione) che non erano mai state esposte al Sars-CoV 2, ma che avevano i linfociti specifici, ma ora è stato dimostrato in uno studio pubblicato su Science dagli immunologi dell’Università della California di La Jolla.
Pochi giorni dopo è stato confermato in uno studio pubblicato su Cell, che ha preso in considerazione 200 svedesi che hanno avuto il Covid 19 con varie intensità. A sorpresa, anche chi aveva avuto i sintomi più lievi presentava, mesi dopo, i linfociti T, e lo stesso si è visto in molti familiari. Ciò potrebbe spiegare anche la maggiore resistenza dei bambini e dei ragazzi, che di solito sono a contatto con molti più virus rispetto agli adulti. Chiara la conclusione degli autori: in teoria questi linfociti, che agiscono da riserve e mantengono la memoria, funzionano come un vaccino. Gli stessi, però, aggiungono: ciò che accade nel sistema immunitario è estremamente più complicato di così, e l’esistenza di linfociti T specifici potrebbe anche avere effetti indesiderati. Le ricerche continuano, e anche quelle sui vaccini aiuteranno a capire meglio il complesso funzionamento del sistema immunitario.
FARMACI E VACCINI
Al momento una terapia antivirale specifica per l’infezione da Sars-CoV-2 non esiste, se non si parla dei trattamenti di supporto come l’eparina (perché il virus induce una abnorme risposta coagulativa che “intasa” il circolo polmonare) o la riduzione della risposta infiammatoria indotta dal virus, sia attraverso farmaci anti_IL6 o come il classico desametasone, che ha dimostrato di ridurre di un terzo la mortalità dei pazienti in ventilazione assistita.
L’unico antivirale che ad oggi ha dato risultati è Remdesivir, nato per il trattamento dell’infezione da Ebola, soprattutto in termini di riduzione del ricovero e delle complicanze. Il farmaco ha avuto il via libera in Europa anche se ci sono anche studi che sembrano indicare un effetto poco significativo del farmaco. Mentre stanno sfumando le prime evidenze positive su clorochina e idrossiclorochina, si presta particolare attenzione alla possibilità offerta dal plasma iperimmune, prelevato da soggetti guariti, e quindi agli anticorpi naturali (o anche sintetici) mirati ad offrire protezione per i malati.
La ricerca sta andando a grande velocità in questo settore per soluzioni mirate, partendo da possibili cure antivirali che agiscano su specifici meccanismi che possano inibire una fase chiave del passaggio del virus, dalla sua “entrata” nelle cellule fino alla possibilità di “ricostruire” il patrimonio genetico e alla “liberazione” nell’organismo. per duplicarsi e continuare nella sua invasione. Secondo Stefano Vella, docente di Salute Globale all’università Cattolica di Roma, “probabilmente occorrerà usare una combinazione di farmaci per bloccarne l’entrata, oppure usare anticorpi monoclonali, magari attaccando le proteasi, enzimi che il virus impiega per uscire dalle cellule che infetta e invaderne altre”. Ma occorreranno farmaci specifici. Al momento sono in fase 3 Vir Biotechnology e GlaxoSmithKline, mentre le americane Regeneron (azienda che ha sviluppato gli anticorpi che hanno curato Trump) ed Eli Lilly, hanno richiesto all’agenzia del farmaco americana l’autorizzazione all’uso di emergenza dei loro prodotti. I NIH hanno però sospeso lo studio di Lilly su raccomandazione di un comitato di monitoraggio dei dati e della sicurezza, o DSMB. Il consiglio si riunirà di nuovo il 26 ottobre per analizzare i dati. Questa è tutta routine, come hanno sottolineato gli esperti della sperimentazione, ma porta nuova incertezza al processo già senza precedenti di sviluppo di trattamenti e vaccini per il Covid-19.
E’ in studio un anticorpo monoclonale specifico per il virus, che lega la proteina S virale, attualmente in fase di sperimentazione iniziale sull’uomo. Si punta anche ad agire su una specifica proteasi dei coronavirus che in qualche modo agirebbe come “chiave” per far entrare il virus all’interno delle cellule polmonari. L’obiettivo è TMPRSS2, un enzima presente nel corpo umano, utilizzato dal virus come un vero e proprio “piede di porco” per accedere nelle cellule a replicarsi, su cui potrebbero agire anche farmaci già esistenti.
L’altro versante di cura mira a contrastare la “tempesta infiammatoria” che, in alcuni pazienti, provoca una polmonite potenzialmente molto seria e altre complicazioni a carico della circolazione e non solo. In questo senso appare interessante, l’impiego in alcuni pazienti di anticorpi monoclonali specifici, come eculizumab, che potrebbe interferire sulla cascata infiammatoria e della coagulazione. Già oggi, peraltro, si stanno valutando in studi clinici farmaci come tocilizumab, sarilumab, ruxolitinib e baricitinib.
Ovviamente, infine, non bisogna dimenticare il possibile sviluppo ulteriore della terapia da plasma, con una produzione su vasta scala di anticorpi mirati contro il virus da immettere nell’organismo delle persone malate. Sono tre i candidati farmaci di questo tipo anti Covid in dirittura d’arrivo in Italia verso la sperimentazione sull’uomo. I test potrebbero partire fine dicembre e gennaio del prossimo anno e arrivare alla conclusione fra la metà e la fine del 2021.
Anvisa, l’agenzia del farmaco del Brasile, ha autorizzato la farmaceutica italiana Dompé allo studio clinico di Fase 2 in 10 centri brasiliani, intitolato Repavid-19, per valutare l’efficacia e la sicurezza di reparixin nei pazienti adulti ospedalizzati con polmonite Covid-19 grave.
L’approvazione di Anvisa segue quella dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) dello scorso maggio. Per la fase 3, una volta che i dati di efficacia e sicurezza siano valutati positivamente, è previsto l’allargamento dello studio anche negli Usa.
Il farmaco reparixin inibisce l’azione dell’interleuchina 8 (IL-8), una delle proteine dell’infiammazione, che si pensa sia associata alle lesioni polmonari osservate nei pazienti con infezione da Sars-CoV-2. Di conseguenza, l’azione di reparixin può rivelarsi utile nei pazienti in cui la risposta immunitaria può provocare una permeabilità vascolare che impedisce lo scambio di gas e l’ossigenazione del sangue.
La corsa al vaccino per il Covid accelera in tutto il mondo dove si contano ben 170 candidati ufficiali, con 10 “corridori” – se si considera anche lo “Sputnik” russo – che intravedono già il filo di lana dell’arrivo. Ma chi sono i vaccini in prima fila, i cosiddetti «frontrunners»? Si tratta di tre diversi vaccini cinesi (sviluppati da Sinovac, CanSino Biologics e Sinopharm); quello dell’Università di Oxford con AstraZeneca in cui è coinvolta anche l’Irbm di Pomezia (su cui l’Italia e l’Europa hanno la prelazione), che dopo una sospensione temporanea (rientrata il 12 settembre) ha avuto l’autorizzazione a riprendere la sperimentazione; il vaccino della biotech americana Moderna insieme all’Istituto nazionale per le malattie infettive (Niaid) diretto da Anthony Fauci, che ha ricevuto (il 14 ottobre) la conferma scritta dall’Ema che il suo vaccino sperimentale è idoneo per la presentazione di una domanda di autorizzazione all’immissione in commercio nell’Unione Europea. C’è poi quello targato Pfizer-BionTech e l’australiano dell’University of Melbourne in collaborazione con il Murdoch Children’s Research Institute, che in realtà è un vaccino usato per la tubercolosi.
L’ottavo candidato vaccino è quello russo. Nonostante la mancanza di prove pubblicate, la Russia ha autorizzato l’uso diffuso di “Sputnik V” che è entrato nella fase 3 della sperimentazione. Ma per l’Oms, il vaccino è ancora in fase 1.
Il nono è quello di Johnson & Johnson, che si differenzia dai concorrenti perchè potrebbe richiedere solo una dose invece di due, ma che al momento ha temporaneamente interrotto i test che stava conducendo su un campione di 60mila pazienti, dopo che un partecipante allo studio clinico ha contratto una malattia inspiegabile. La società ha assicurato che l’effetto collaterale è in fase di valutazione, da parte dell’organismo indipendente Data Safety Moinitoring Board e da parte dei suoi esperti interni, e ha garantito che darà ulteriori informazioni dopo aver condotto altre indagini.
Il decimo è quello di Novavax. Se le prove avranno successo, l’azienda prevede di fornire 100 milioni di dosi da utilizzare negli Stati Uniti entro il primo trimestre del 2021. A settembre Novavax ha raggiunto un accordo con il Serum Institute of India, per produrre fino a 2 miliardi di dosi all’anno.
Si possiamo suddividere per meccanismo d’azione.
Vaccini genetici, che utilizzano cioè uno o più geni del virus per provocare una risposta immunitaria.
Tra questi ci sono:
- Fase 3: Il vaccino a mRNA di Moderna è entrato in fase 3. Questa fase prevede la somministrazione del vaccino a 30.000 persone sane in doppio cieco. Se avrà successo, questo sarà il primo vaccino a base di RNA messaggero a ottenere l’approvazione della Fda. Moderna ha ricevuto la conferma scritta dall’European Medicines Agency (Ema) che mRNA-1273, il vaccino sperimentale dell’azienda contro COVID-19, è idoneo per la presentazione di una domanda di autorizzazione all’immissione in commercio nell’Unione Europea, secondo la procedura centralizzata dell’Agenzia.
- Fase 3. La società tedesca BioNTech ha avviato collaborazioni con Pfizer e la cinese Fosun Pharma per sviluppare un vaccino a mRNA. A maggio, sono stati annunciati gli studi sull’uomo e Pfizer spera di avere qualche milione di dosi per un uso di emergenza in autunno. L’Ema (l’Agenzia europea del farmaco) ha iniziato l’iter di approvazione. “L’inizio della rolling review – ha spiegato l’Ema – vuol dire che il comitato per i medicinali umani ha iniziato a valutare il primo set di dati, che viene dagli studi di laboratorio (non dai dati clinici)”
- Fase 1 e 2 . I ricercatori dell’Imperial College di Londra hanno sviluppato un vaccino Rna auto-amplificante, che aumenta la produzione di una proteina virale per stimolare il sistema immunitario. Hanno iniziato gli studi di Fase I / II il 15 giugno e collaborano con Morningside Ventures per produrre e distribuire il vaccino attraverso una nuova società chiamata VacEquity Global Health.
- Fase 1. A maggio, la società americana Inovio ha pubblicato uno studio che dimostra che il loro vaccino a base di Dna ha sviluppato anticorpi nei topi. Gli studi di fase I sono in corso negli Stati Uniti e sono iniziati in Corea del Sud alla fine di giugno. Entro settembre darà il via a una sperimentazione clinica di fase 2/3 per il suo vaccino, nominato Ino-4800, che viene somministrato mediante iniezione intradermica seguita da elettroporazione, attraverso l’utilizzo di uno specifico dispositivo. I ricercatori puntano a completare lo studio nel prossimo mese di novembre.
- Preclinica: La tedesca CureVac che non ha ancora avviato studi sull’uomo per Covid-19, ma un vaccino a Rna contro la rabbia che ha superato i test di sicurezza di fase I a gennaio. La società ha dichiarato che la sua struttura può produrre centinaia di milioni di vaccini all’anno.
Vaccini virali vettoriali, che usano un virus come vettore per rilasciare nelle cellule i geni del coronavirus e determinare una risposta immunitaria.
- Fase 3. Il Vaccino della società svedese-britannica AstraZeneca e dell’Università di Oxford in collaborazione con l’italiana Irbm utilizza un adenovirus chiamato ChAdOx1. Il vaccino sta iniziando i test di Fase II / III in Inghilterra e Brasile. Supportato da Operation Warp Speed, il vaccino potrebbe arrivare entro ottobre per gli operatori sanitari e le persone più a rischio. A giugno, AstraZeneca ha dichiarato che la loro capacità produttiva totale ammonta a due miliardi di dosi. Questo vaccino è il primo ad aver iniziato il rolling review da parte dell’Agenzia europea del farmaco (Ema)
- Fase 3. La società cinese CanSino Biologics sta testando il vaccino basato su un adenovirus chiamato Ad5, in collaborazione con l’Istituto di biologia dell’Accademia delle scienze mediche militari del paese. A maggio sono stati i primi in assoluto a pubblicare i dati di uno studio di fase 1 in un articolo su Lancet.
- Fase 1. L’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha autorizzato la sperimentazione di fase I sul vaccino anti-Covid prodotto dall’azienda bio-tecnologica italiana ReiThera.
- Fase 3. I ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston stanno testando un adenovirus chiamato Ad26 in collaborazione con Johnson & Johnson. La società farmaceutica con uno studio pubblicato su Nature ha annunciato che il vaccino sperimentale contro il Sars-CoV-2 induce una forte risposta immunitaria che protegge da successive infezioni. In forza di tali dati, un trial clinico first-in-human di fase 1/2a per il candidato vaccino Ad26.Cov2.S su volontari sani è stato condotto negli Stati Uniti e in Belgio. Il trial clinico di fase 3 è stato avviato il 23 settembre, il 12 ottobre però la società ha temporaneamente interrotto i test che stava conducendo su un campione di 60mila pazienti, dopo che un partecipante allo studio clinico ha contratto una malattia inspiegabile e ora è in fase di valutazione da parte dell’organismo indipendente Data Safety Moinitoring Board e da parte dei suoi esperti interni.
- PRECLINICA. La Big pharma americana Merck ha annunciato a maggio lo sviluppo di un vaccino contro i virus della stomatite vescicolare, lo stesso approccio utilizzato con successo per produrre l’unico vaccino approvato per l’Ebola. La società collabora con Iavi (International Aids Vaccine Initiative) un partenariato globale pubblico-privato senza scopo di lucro.
- PRECLINICA. Il colosso svizzero Novartis produrrà un vaccino basato sulla terapia genica sviluppato dal Massachusetts Eye and Ear Hospital. Le prove di fase I inizieranno alla fine del 2020.
Vaccini a base di proteine, che usano una proteina del coronavirus o un frammento proteico per provocare la risposta immunitaria.
Tra questi ci sono:
- FASE 3. Il vaccino di Novavax consiste in due iniezioni somministrate a 21 giorni di distanza. La società di Gaithersburg conta di fornire i dati raccolti dalla sperimentazione in Sud Africa alla Food and Drug Administration statunitense e pensa di avviare una seconda prova intermedia anche in Australia e negli Stati Uniti su un vaccino costituito da particelle microscopiche che trasportano frammenti di proteine di coronavirus. La Coalition for Epidemic Preparedness Innovations sta investendo 384 milioni di dollari nel progetto. Il governo degli Stati Uniti ha siglato un accordo da 1,6 miliardi di dollari con Novavax per finanziare lo sviluppo in fase avanzata del vaccino contro il coronavirus dell’azienda e stabilire una produzione su larga scala per 100 milioni di dosi. Inoltre la Bill & Melinda Gates Foundation ha donato 15 milioni di dollari per aiutare a sostenere lo studio di fase 2 di Novavax.
- FASE 1/2. Sanofi e Gsk hanno annunciato lo scorso 3 settembre l’avvio degli studi clinici di Fase 1 / 2 a supporto dello sviluppo del vaccino. La Fase 3 inizierà entro la fine del 2020 e l’approvazione regolatoria potrebbe essere richiesta nella prima metà del 2021. Le aziende hanno siglato il 18 settembre un accordo di preacquisto con la Commissione europea per la fornitura del vaccino adiuvato contro Covid-19 fino a 300 milioni di dosi, da quando il vaccino sarà approvato. Il candidato vaccino utilizza la combinazione tra la tecnologia basata su proteine ricombinanti di Sanofi, già utilizzata per la produzione del vaccino antinfluenzale, e la tecnologia adiuvante consolidata di Gsk.
- FASE 1. L’azienda di biotecnologia Vaxart ha ricevuto l’autorizzazione dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense per condurre una sperimentazione clinica di fase I del suo candidato vaccino Covid-19. Il vaccino di Vaxart è una compressa orale contenente diverse proteine virali.
- FASE 1. Un vaccino dell’Università australiana del Queensland eroga proteine virali alterate per ottenere una risposta immunitaria più forte. A giugno, l’università e la società CSL hanno annunciato una partnership per avviare gli studi di Fase I, che potrebbero portare a milioni di dosi all’anno a partire dal 2021. Anche in questo caso GSK fornisce l’adiuvante per stimolare ulteriormente il sistema immunitario.
- FASE 1. Clover Biopharmaceuticals ha sviluppato un vaccino contenente una proteina di coronavirus. Il vaccino verrebbe abbinato a un cosiddetto adiuvante, prodotto da Gsk , per stimolare ulteriormente il sistema immunitario.
- PRECLINICA. Dopo l’epidemia di Sars nel 2002, i ricercatori del Baylor College of Medicine hanno iniziato a sviluppare un vaccino in grado di prevenire nuovi focolai. Nonostante i primi risultati promettenti, dopo la scomparsa della Sars è scomparso anche il supporto finanziario per la ricerca. Poiché i coronavirus che causano la Sars e Covid-19 sono molto simili, i ricercatori stanno rilanciando il progetto in collaborazione con il Texas Children’s Hospital.
- PRECLINICA. Un vaccino in via di sviluppo dell’Università di Pittsburgh , chiamato PittCoVacc, è un cerotto con 400 minuscoli aghi fatti di zucchero. Quando vengono posizionati sulla pelle, gli aghi si dissolvono e rilasciano proteine virali nel corpo.
Vaccini contro virus interi, che usano una versione indebolita o inattivata del coronavirus per provocare una risposta immunitaria.
Tra questi ci sono:
- FASE 3. La società privata cinese Sinovac Biotech sta testando un vaccino inattivato chiamato CoronaVac. Il 13 giugno la società ha annunciato che gli studi di fase I / II su 743 volontari non hanno dato effetti avversi gravi e hanno prodotto una risposta immunitaria. Sinovac sta condicendo prove di Fase III in Cina e Brasile e sta costruendo una struttura per produrre fino a 100 milioni di dosi all’anno. La compagnia cinese testerà il proprio candidato vaccino contro il Sars-Cov-2, che attualmente è in fase 3 per quanto riguarda gli adulti, anche su bambini e ragazzi tra i 3 e i 17 anni. La nuova sperimentazione è stata registrata sul sito clinicaltrials.gov. Alla sperimentazione dovrebbero partecipare 552 soggetti, a cui verranno date due dosi. Il test, che sarà contemporaneamente di fase 1, quella che determina la sicurezza del vaccino, e 2, quella che dà invece le prime informazioni sull’efficacia, dovrebbe iniziare il 28 settembre nella provincia settentrionale cinese di Hebei.
- FASE 3. La società cinese statale Sinopharm sta conducendo la sperimentazione su due virus vaccinali inattivati. La società ha annunciato di aver costruito una struttura a Pechino per produrre fino a 200 milioni di vaccini all’anno.
- FASE 1. I ricercatori dell’Istituto di biologia medica dell’Accademia cinese delle scienze mediche, che ha inventato i vaccini per la poliomielite e l’epatite A, stanno conducendo uno studio di fase I su un vaccino virale inattivato per Covid-19.
Vaccini riproposti, già in uso per altre malattie che possono anche proteggere da Covid-19.
- FASE 3. Il vaccino Bacillus Calmette-Guerin è stato sviluppato nei primi anni del 1900 come protezione contro la tubercolosi. Il Murdoch Children’s Research Institute in Australia sta conducendo uno studio di fase 3 e sono in corso numerosi altri studi per vedere se il vaccino protegge parzialmente contro il coronavirus.
L’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha autorizzato la sperimentazione di fase I sul vaccino anti-Covid prodotto dall’azienda bio-tecnologica italiana ReiThera. Lo studio è stato già valutato positivamente dall’Istituto Superiore di Sanità e ha ottenuto il parere favorevole del Comitato etico dell’INIMI Spallanzani. Si tratta di uno studio di fase I che ha l’obiettivo di valutare la sicurezza e l’immunogenicità del vaccino GRAd-COV2, basato su un vettore adenovirale. Lo studio prevede l’arruolamento di 90 volontari sani in due coorti: la coorte degli adulti arruolerà 45 soggetti sani di età compresa tra 18 e 55 anni; la coorte degli anziani arruolerà 45 soggetti sani di età compresa tra 65 e 85 anni. Il progetto di sviluppo del vaccino è sostenuto dal Ministero della Ricerca con il Cnr e dalla Regione Lazio. La sperimentazione sarà condotta presso l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “L. Spallanzani” di Roma e il Centro Ricerche Cliniche Verona.
I BAMBINI
L’infezione da Sars-CoV 2 non risparmia i bambini e i ragazzi. E ormai è abbastanza chiaro il quadro relativo alle diverse età: lo si è via via compreso studiando grandi casistiche e lo si sta ulteriormente definendo analizzando quando succede nei paesi dove le scuole hanno riaperto. Nella maggior parte dei casi (in due bambini su tre) chi si è ammala ha più di cinque anni, mentre i più a rischio sono i piccolissimi, cioè quelli che hanno meno di un mese.
Nei paesi dove c’è stato un approccio severo con chiusure e restrizioni, l’incidenza si aggira attorno all’1% dei malati totali (in Italia è l’1,2%), mentre in quelli dove la malattia sta ancora dilagando come gli Stati Uniti è attorno al 2%, o più. Inoltre, solo un bambino su due manifesta i sintomi dopo l’infezione. Per quanto riguarda i bambini sintomatici, uno studio tra i più importanti è stato quello europeo pubblicato su Lancet Child and Adolescent Health, che ha coinvolto 82 centri in 25 paesi, e che è stato svolto grazie a una rete collaborativa già esistente per il monitoraggio della tubercolosi, il Paediatric Tuberculosis Network European Trials Group (ptbnet): in quel caso sono stati presi in esame poco meno di 600 casi pediatrici osservati nel mese di aprile.
Si è così visto che i sintomi insorgono da due a quattro settimane dopo l’esposizione alla fonte del contagio, con una leggera prevalenza tra i maschi rispetto alle femmine, in due terzi dei casi in piccoli sani prima dell’infezione. Qualcuno si ammala gravemente, entro circa 25 giorni, e quando c’è bisogno del ricovero, in quattro casi su cinque è necessaria anche la terapia intensiva. Circa il 70% dei ricoverati pediatrici, però, viene dimesso entro pochi giorni, poco meno del 30 affronta permanenze in ospedale più lunghe e meno del 2% dei ricoverati soccombe.
Come riportano ormai diversi siti ufficiali quali quello dei CDC di Atlanta, i sintomi sono molto simili a quelli di un’influenza e comprendono febbre, tosse, raffreddore, mal di gola, respiro corto, diarrea, nausea, vomito, affaticamento (fatigue), mal di testa, dolori muscolari, mancanza di appetito. Nei casi più gravi insorge una sindrome specifica, infiammatoria, che può diventare molto grave, chiamata MIS-C o sindrome multinfiammatoria sistemica da Covid 19, che può essere letale e le cui conseguenze a lungo termine restano, al momento, ignote. Tra i bambini il Covid 19 è una quindi malattia non grave, che si risolve entro poche settimane dal contagio, anche se non mancano casi gravi e rarissimamente letali.
Si fa più chiaro il quadro sui bambini e sui ragazzi e, soprattutto, su quale sia la probabilità di contagio nelle diverse fasce d’età. E si tratta di dati importanti, in vista del rientro a scuola. Tra gli ultimi vi sono quelli pubblicati dai CDC di Atlanta, che hanno ospitato quanto emerso dall’analisi di oltre 65.000 coreani del sud (5.700 malati e quasi 60.000 loro contatti), e cioè che mentre i bambini fino ai dieci anni e dopo il primo sono pessimi diffusori di coronavirus, tra gli adolescenti la situazione cambia e, via via che aumenta l’età, diminuiscono le differenze rispetto agli adulti.
Bisogna tenerne conto, hanno commentato gli esperti, perché i teenagers possono al tempo stesso avere le abitudini non sempre ottimali dei bambini (quanto a igiene e distanziamento) e moltissimi contatti, e questo potrebbe far aumentare la circolazione del Sars-CoV 2 nella popolazione, ma bisogna anche fare tutto il possibile per rimandare i ragazzi a scuola, a cominciare dai disabili e da quelli più a rischio di dispersione scolastica.
E’ però molto importante decidere come farlo, come dimostrano situazioni diverse verificatesi nel mondo nelle ultime settimane: Danimarca e Finlandia non hanno avuto problemi, mentre Israele, Cina e la stessa Corea del Sud hanno dovuto richiuderle.
Nei giorni scorsi 1.500 tra pediatri, psicologi infantili ed esperti di infanzia britannici hanno firmato un accorato appello affinché ragazzi e bambini possano tornare a giocare e soprattutto a studiare, perché i rischi associati alla chiusura delle scuole, all’inattività fisica, alla mancanza di gioco e di relazioni stanno diventando peggiori di quelli collegati all’infezione da Sars-CoV 2.
Per fortuna, come ha fatto notare Science in un lungo e dettagliato articolo, le risposte iniziano ad arrivare, grazie a un immenso esperimento inedito e involontario, condotto in tutto il mondo su milioni di bambini senza una specifica metodologia: quello in corso in decine di paesi, ciascuno dei quali sta seguendo la propria strada. Ci sono infatti stati che hanno deciso di riaprire le scuole da settimane, altri che non le hanno mai chiuse, altri ancora che temporeggiano, così come ci sono scuole che prevedono il distanziamento, le mascherine e i disinfettanti e altre che lasciano i bambini del tutto liberi, e poi istituti che chiudono i battenti al primo caso e altri che non adottano provvedimenti, distretti nei quali si fanno tamponi e test al personale e agli studenti e altri che non li prevedono e così via, con tutte le possibili sfumature.
Che cosa si è capito finora? Non tutto, ma alcune cose sì. Innanzitutto, i bambini e i ragazzi si infettano meno degli adulti (a seconda degli studi, il rischio oscilla da un terzo a un mezzo), e anche se quando vengono contagiati il loro organismo permette una replicazione virale elevata, che non ha nulla da invidiare a quella degli adulti, per motivi non chiari bambini e ragazzi non infettano gli altri in modo altrettanto efficiente. E’ insomma sempre più palese che, più che contagiare docenti e personale o parenti a casa, sono loro a essere contagiati dagli adulti che li circondano.
Uno degli studi più interessanti, da questo punto di vista, è stato condotto dall’Istituto Pasteur di Parigi, che ha analizzato che cosa è successo a oltre 1.300 tra docenti e studenti delle scuole elementari di Crépy-en-Valois (paese della regione dell’Oise), che in aprile avevano riaperto e che sono state oggetto di un vero e proprio studio controllato, con tanto di tamponi e test sierologici. L’incidenza tra i bambini è risultata essere dell’8,8%, quella totale della scuola del 10,4%, quella tra i docenti del 7,1%. Con pochissime eccezioni, non c’è stato alcun contagio diretto dai bambini né verso il personale scolastico né verso i parenti. Solo due parenti dei 139 contagiati presenti nella scuola hanno avuto bisogno di un ricovero, ma non c’è stato nessun decesso. Impressionante, poi, la proporzione degli asintomatici sul totale dei contagiati: se tra gli adulti è stata circa del 10%, tra i bambini è salita al 41%.
Per quanto riguarda le misure da adottare, esperienze di diversi stati indicano che evitare classi troppo affollate e far indossare ai ragazzi la mascherina come in Cina, Corea del Sud, Vietnam e Giappone (paesi dove però da anni grande parte della popolazione lo fa, nella stagione dell’influenza) sia sufficiente a non creare focolai, anche se nessuna delle due misure è di facile applicazione. Paesi come Israele hanno adottato una misura meno faticosa, e cioè l’imposizione della mascherina negli intervalli e in mensa dopo i 7 anni, ma sta diminuendo sempre più il numero di quelli che la impongono. L’Austria, che l’aveva adottata, l’ha appena abbandonata e la Germania ha reso le norme molto meno stringenti, mentre in molti altri paesi europei è opzionale sia per gli studenti che per lo staff.
Non ci sono poi, al momento, soluzioni univoche in caso di positività, e alcuni paesi come la Gran Bretagna e la Germania proprio per questo motivo hanno deciso di lanciare studi specifici, per verificare l’andamento dell’infezione e adottare poi le politiche più adeguate. Tutti o quasi i pediatri considerano infine del tutto pericolosa, esagerata e inappropriata l’idea di impedire, soprattutto ai più piccoli, di parlare e giocare sia a scuola che all’aperto.
La sindrome di Kawasaki è un’infiammazione dei vasi (chiamata vasculite) e del muscolo cardiaco caratterizzata da febbre alta, conseguenza diretta di alcune infezioni delle vie respiratorie. Fino dalle prime segnalazioni di casi più gravi di Covid-19 nei bambini, si è ritenuto che l’infiammazione generalizzata riscontrata potesse essere proprio la Kawasaki, ma nel tempo sono sorti alcuni dubbi e al momento si pensa che si tratti di una sindrome simile, ma distinta, chiamata multinfiammatoria multipla da Covid 19 o MIS-C, in base a quanto stabilito dalla stessa dalla stessa OMS e dai CDC di Atlanta.
In particolare, sono di questa opinione i pediatri della Rutgers University di New Brunswick autori di due delle principali casistiche relative agli Stati Uniti e a New York pubblicate nei giorni scorsi sul New England Journal of Medicine, che sostengono che nella MIS-C ci sia un più grave coinvolgimento del cuore rispetto alla Kawasaki, e che essa tenda a manifestarsi in bambini un po’ più grandi rispetto a quest’ultima, ovvero dopo i cinque anni di età. La MIS-C, inoltre, interesserebbe spesso l’apparato gastrointestinale e anche se viene identificata quando solo due organi sono colpiti, in più di due terzi dei bambini ne coinvolgerebbe quattro o più.
La confusione rispetto alla Kawasaki sarebbe da attribuire alla varietà dei sintomi finora registrati, che a seconda dei casi possono chiamare in causa quasi tutti gli organi. Va però detto che un dato empirico, proveniente questa volta dalla Francia, fa riflettere sulla differenza tra Kawasaki e MIS-C. A condurlo sono stati i pediatri dell’Ospedale Debré di Parigi, che sono andati a controllare se negli ultimi mesi l’incidenza della Kawasaki era cambiata rispetto a quanto successo negli ultimi anni.
Come riferito su Lancet Child and Adolescent Health, in totale tra il dicembre 2005 e il maggio 2020 ci sono stati 230 casi, ma l’incidenza, prima, era di 1,2 casi al mese. In aprile l’indice è schizzato a 6 casi al mese, con un aumento del 597%, e l’80% dei bambini ricoverati per Kawasaki era positivo al Sars-Cov 2. L’ultimo picco anomalo si era avuto nel 2009, in occasione della pandemia da influenza suina H1N1. Anche in Italia si è visto qualcosa di simile. I pediatri dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo hanno infatti riportato, su Lancet, un picco di 30 volte nell’incidenza di quella che hanno chiamato simil-Kawasaki: se tra il gennaio 2015 e il febbraio 2020 c’erano stati 19 casi, tra febbraio e aprile 2020 ce ne sono stati già dieci.
Secondo i pediatri bergamaschi tra le due popolazioni ci sono alcune differenze cliniche che sembrano concordare con quelle indicate dall’OMS, tra Kawasaki e MIS-C. Ciò sembra confermare che, pur essendo la risposta infiammatoria vascolare tipicamente associata ai casi più gravi di infezioni respiratorie pediatriche, quella scatenata dal Sars-CoV 2, ancora una volta, ha caratteristiche proprie, in parte inedite e quasi sempre gravi, le cui conseguenze a lungo termine sono tutte da studiare. Fortunatamente sembra che la MIS-C interessi meno del 10% dei bambini infettati.
Sta crescendo l’allarme per il benessere psicofisico dei ragazzi. Lo segnala, tra gli altri, uno studio pubblicato sul Journal of Medical Internet Research dagli psichiatri dell’Università di Darmouth, negli Stati Uniti, che hanno intervistato 200 studenti di college e trovato un netto aumento di ansia e depressione. E lo confermano indirettamente i pediatri di Perth, che nei mesi del lockdown hanno avuto un numero di ricoveri in ospedale per gravi disturbi del comportamento alimentare quali l’anoressia doppio rispetto a quello medio dei tre anni precedenti. Come riferito sugli Archives of Disease in Childhood, hanno anche notato un incremento dei casi di depressione, ansia e disturbi ossessivo-compulsivi. Non a caso i Cdc americani si sono espressi ufficialmente, in un documento che ricorda, oltre ai bisogni psicologici, la necessità delle attività fisiche e di un’alimentazione controllata come quella fornita dalle scuole: pur con tutte le cautele del caso, i ragazzi devono assolutamente tornare a scuola.
IL FUTURO DEL VIRUS
Il Sars-CoV 2 sta mutando: lo dimostrano ormai numerosi studi condotti su casistiche di migliaia di persone. Tra le ultime spicca quella analizzata dai ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine (Lshtm), uscita su BioRXiV, che ha preso in esame 5.000 pazienti di tutto il mondo e ha concluso che il virus muta molto, e lo fa in fretta e in modo variabile a seconda delle zone e di altri fattori.
Nei mesi scorsi aveva destato allarme un’analisi postata su BioRXiV dai genetisti dell’Università di Los Alamos, dalla quale era emerso che una delle mutazioni più frequenti, chiamata D614G, riguardava la proteina su cui è concentrata la ricerca di vaccini e farmaci, la Spike o spina. Andava nella stessa direzione lo studio postato in seguito dai ricercatori dello Scripps Institute di Jupiter, in Florida, nel quale la mutazione più comune delle mutazioni era, di nuovo, la D614G. Si temeva che ci potesse essere un’evoluzione negativa del virus.
Nelle ultime settimane, però, la comunità scientifica si è espressa in modo abbastanza concorde: si ritiene che questa mutazione potrebbe rendere il virus più contagioso, ma non più pericoloso. Nello studio dei ricercatori di Los Alamos, inizialmente pubblicato su BioRXiV, e ora uscito su Cell, conferma infatti che la mutazione predominante è D614G la quale conferisce maggiore contagiosità, ma non aggrava il quadro clinico.
L’Oms, che si è espressa sul tema, ha invece sottolineato che le mutazioni viste finora, compresa D614G, non hanno influenza né sulla contagiosità, né sui vaccini e le possibili terapie in studio.
Ma bisogna considerare anche le conseguenze delle mutazioni sulla diagnostica. Secondo uno studio turco, riferito dalla stampa non specializzata ma condotto dal vice rettore del Marmara Research Center of the Scientific and Technological Research Council di Instanbul, infatti, ci potrebbero essere conseguenze sui tamponi, che potrebbero diventare meno specifici proprio perché le sequenze che essi rilevano sono mutate.
In generale, il tasso di mutazioni sarebbe attorno allo 0,02%, un valore che può sembrare piccolo, ma che assume le dimensioni reali quando confrontato a quello dei geni umani che, in media, mutano allo 0,001% dei casi. Non sorprende, tuttavia, che il coronavirus stia mutando (non molto, quelli influenzali mutano il doppio). Intanto perché moltissimi virus sono caratterizzati da elevati tassi di mutazioni in qualunque condizione, e poi perché è possibile, come sostiene uno studio pubblicato su Infection, Genetics and Evolution, che il Sars-CoV 2 si stia adattando al suo nuovo, gradito ospite: l’uomo.
In esso un gruppo di esperti coordinato dai ricercatori dell’Imperial College di Londra, esaminando i genomi di oltre 7.600 pazienti di tutto il mondo, ha trovato quasi 200 mutazioni che, stando a quanto ipotizzato in base alle tipologie evidenziate, andrebbero nella direzione di un graduale adattamento all’uomo.
Uno studio dei ricercatori di Los Alamos, inizialmente pubblicato su BioRXiV, è uscito su Cell e conferma che la mutazione predominante è D614G e conferisce maggiore contagiosità, ma non aggrava il quadro clinico.
La mappa delle mutazioni rilevate è disponibile e costantemente aggiornata su Nexstrain.org.
Solo il tempo potrà dare una risposta a questa domanda. Ma la speranza esiste ed è fondata su studi interessanti. Il sole ha un’azione significativa sui virus, ma oltre a questo bisogna ricordare che le goccioline di saliva sono più instabili quando il clima è molto caldo-umido. Secondo quanto riporta Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta (Usa), in un post sui social, si tratta din un meccanismo già noto che spiega come mai le infezioni respiratorie virali si sviluppino soprattutto in inverno. Inoltre il virus potrebbe essere sensibile alla luce solare e all’umidità, con una minor “durata” in ambienti esterni, siano essi superfici o aria. In particolare, se l’umidità è elevata anche i droplets che contengono in virus andrebbero più rapidamente a terra. Altri studi hanno dimostrato che il virus sarebbe particolarmente forte con clima relativamente freddo. Addirittura una ricerca congiunta del Mit di Boston su dati della Johns Hopkins University di Baltimora ha rilevato un rallentamento della diffusione del virus nelle aree a sud degli USA, dove il clima è più caldo, rispetto a quelle settentrionali.
La speranza che il virus possa diventare stagionale, più o meno come l’influenza, nelle zone a clima temperato potrebbe però diventare realtà in futuro. Una revisione pubblicata su Frontiers in Public Health, infatti suggerisce che una trasformazione della pandemia in malattia stagionale sarebbe possibile, ma non certo immediatamente. Per fare questo passaggio, secondo lo studio coordinato da Hassan Zaraket, dell’ American University di Beirut, occorre che prima si formi una robusta e diffusa immunità di gregge. Quindi sono sempre fondamentali le misure di distanziamento e le protezioni individuali.
La pandemia di Covid-19 sarà una grande ondata non stagionale che andrà su e giù aveva detto Margaret Harris dell’Oms. La portavoce dell’Oms ha messo in guardia dal pensare alla pandemia in termini di ondate, perché il Covid-19 non si comporta come l’influenza che tende a seguire l’andamento delle stagioni: Sarà una grande ondata. Andrà un po’ su e un po’ giù. La cosa migliore è appiattirla e trasformarla in qualcosa che sfiori appena i nostri piedi.
La ricerca al momento su questo non dà risposte certe, nonostante i virus respiratori in genere siano stagionali. Uno studio segnala come le aree più colpite si trovavano ad una temperatura media tra 5 e 11 gradi e umidità bassa. Il sole peraltro ha un’azione significativa sui virus, ma oltre a questo bisogna ricordare che le goccioline di saliva sono più instabili quando il clima è molto caldo-umido.
Certamente con la stagione fredda si sta più al chiuso. Una lettera pubblicata su Clinical Infectious Disease a firma di Lidia Morawska dell’Università del Queensland e Donald K. Milton, dell’Università del Maryland, sottoscritta da oltre 200 scienziati raccomanda maggiore attenzione nei confronti della trasmissione del virus per via aerea. I droplets contenenti le particelle virali rimarrebbero nell’aria per un certo tempo.
La trasmissione in ambienti chiusi è molto più probabile rispetto a quanto può avvenire all’aperto, specie se si sta a distanza. Ma anche attraverso aerosol. Nell’aerosol la permanenza del Sars2-COv-19 può essere anche di tre ore, seppur in quantità ridotte, come mostra uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine. Come se non bastasse gli scienziati del Mit di Boston coordinati da Lydia Bourouiba hanno segnalato su Jama la capacità del ceppo virale responsabile della pandemia che stiamo affrontando di arrivare anche a diversi metri, ovviamente sulla spinta della potente espirazione che accompagna uno starnuto.
Per quanto riguarda gli ambienti chiusi, occorre mantenere la giusta distanza al ristorante, sui luoghi di lavoro, tra gli operatori sanitari e a domicilio. L’Istituto superiore di sanità raccomanda in questo senso di garantire un buon ricambio d’aria in tutti gli ambienti in abitazioni uffici e ovunque sia possibile. Aprire regolarmente le finestre è estremamente utile per “cambiare aria”. Ovviamente occorre anche ricordare che Il lavaggio e la disinfezione delle mani sono la chiave per prevenire l’infezione, anche attraverso i possibili contatti con oggetti su cui il virus può permanere.
Quanti sono i ceppi di Sars-CoV 2? Come minimo sei. Lo hanno stabilito i virologi e genetisti dell’Università di Bologna, che su Frontiers in Microbiology hanno pubblicato il risultato di un grande sforzo: l’analisi di oltre 48.600 genomi virali di ogni parte del mondo. Il quadro che ne emerge è quello di un virus che, per fortuna, non muta molto: circa sette basi a campione (quelli influenzali mutano il doppio).
Il risultato è che ci sarebbero, in circolazione, sei ceppi, a partire dal primo identificato, denominato L, di Wuhan, per continuare con quelli chiamati V, S, e G, mutato poi in due forme, la GH e la GR. Il ceppo più diffuso è G, quello che reca la mutazione chiamata D614G, che con le sue tre forme rappresenta il 74% di tutti i Sars-CoV 2 circolanti. La G e la GR primeggiano in Italia e in Sud America, la GH in Francia, Germania, e in Nord America.
La S, L e la V stanno scomparendo anche in Asia, cedendo il passo alla G. Negli ultimi giorni, poi, i ricercatori di Singapore hanno reso noto, su Lancet, quanto osservato in oltre 130 pazienti ricoverati all’inizio dell’anno: chi ha avuto un Sars-CoV 2 con la mutazione (in realtà una delezione, cioè un’eliminazione di un grosso frammento di materiale genetico) nota come delta 382 nella zona ORF8 ha avuto anche una malattia nettamente meno grave, che non ha mai portato alla necessità di ventilazione.
Esistono dunque mutazioni come questa, peraltro riscontrata in altri paesi asiatici, in Australia e in Spagna, che rendono il virus meno aggressivo.
LA MALATTIA
Ci sono anche notizie positive, nell’aggiornamento continuo sull’evoluzione della malattia. La perdita del senso dell’olfatto e spesso del gusto, segnalata fino dai primissimi giorni e ritenuta indicativa dell’infezione perché il Sars-CoV-2 entra primariamente attraverso le mucose nasali, ricchissime di recettori Ace2, è quasi sempre temporanea. Lo suggerisce una casistica pubblicata su Jama Otolaryngology – Head and Neck Surgery da medici e ricercatori veneti e friulani insieme con alcuni colleghi britannici, relativa a 202 pazienti.
A un mese dai primi sintomi, quasi uno su due aveva completamente recuperato l’olfatto, il 40% aveva avuto un netto miglioramento e solo il 10% riferiva di non avvertire alcun cambiamento o addirittura un peggioramento. Ma questi ultimi hanno permesso di definire anche un altro elemento importante: alla persistenza del danno non corrisponde la persistenza dell’infezione.
Più passa il tempo e più si capisce che chi ha sviluppato le forme più gravi di Covid-19, quelle che hanno richiesto il ricovero e la permanenza in terapia intensiva, potrebbe avere conseguenze di tipo psichiatrico e neurologico anche a lungo termine, se già non le ha avute in ospedale. Durante le ultime settimane si sono succedute le segnalazioni soprattutto per quanto riguarda ictus e psicosi, e ora oi medici dell’Università di Liverpool, in Gran Bretagna, pubblicano, su Lancet Psychiatry, una casistica che è forse la più completa uscita finora, perché riguarda la maggior parte dei pazienti ricoverati in terapia intensiva durante il picco del mese di aprile.
In essa si descrivono 125 casi gravi: 77 hanno avuto un ictus (57 causato da un trombo, e quindi ischemico, 9 da un’emorragia e uno da un’infiammazione del cervello o encefalite), 39 sono entrati in uno stato confusionale o hanno cambiato comportamento (sette di loro avevano un’encefalite), 23 hanno risentito di un’alterazione dello stato mentale (che in alcuni era diventata una vera e propria psicosi). Non si può escludere che almeno in parte le malattie neurologiche o psichiatriche fossero preesistenti, ma neppure – come pensano in molti, tra i clinici – che il virus, in alcuni pazienti, colpisca in modo significativo il sistema nervoso, sia per fattori legati al ricovero e alle terapie (immobilità, carenza di ossigeno, farmaci, anestetici e così via) sia per una sua specifica localizzazione centrale.
Anche la Bbc ha dedicato al tema un lungo articolo, mentre il New York Times ha pubblicato un reportage dalle corsie, nel quale diversi pazienti raccontano la loro terrificante esperienza con le allucinazioni da Sars-CoV-2. Le encefaliti letargiche furono la grande, devastante eredità della pandemia di spagnola, e tra il 1918 e il 1927 colpirono cinque milioni di persone in tutto il mondo, come ha raccontato, tra gli altri, da Oliver Sacks in Risvegli.
Dopo la casistica nazionale resa nota su Brain, i neurologi dell’Università di Liverpool pubblicano ora una grande revisione dei dati internazionali che accende una nuova, inquietante luce sui possibili danni al sistema nervoso del Covid 19 e, di nuovo, chiama in causa l’encefalite letargica che funestò il mondo per vent’anni dopo la spagnola e che alcuni esperti temono possa tornare.
In questo caso gli autori hanno preso in considerazione i dati di moltissimi paesi tra i quali Italia, Stati Uniti e Cina, e hanno individuato ben 1.000 casi di conseguenze neurologiche gravi quali gli ictus e le psicosi, e poi appunto l’encefalite e altre patologie quali la sindrome di Guillain-Barré, una grave perdita della guaina protettiva delle fibre nervose causata da meccanismi non del tutto chiari ma di origine autoimmune. Fatto che spiegherebbe un altro riscontro, avvenuto in Germania, e di cui i neurologi dell’Ospedale Charité di Berlino hanno dato conto su medRxiv, pubblicazione priva di revisione: alcuni pazienti (11, nella loro casistica) hanno elevate concentrazioni di autoanticorpi diretti contro varie proteine del proprio cervello nel liquido cerebrospinale, anche quando non è possibile rilevarvi il virus. La spiegazione è che l’infezione potrebbe innescare un grave squilibrio immunitario che, dopo la fase acuta, avrebbe come esito finale una malattia autoimmune neurologica.
Come riferito dai neurologi inglesi su Lancet Neurology, comunque, ciò che è emerso è anche l’eterogeneità dei dati e le numerose lacune nei vari database: per questo – hanno sottolineato in un accorato appello gli autori – è molto importante che da ora in poi tutti i possibili effetti sul sistema nervoso vengano segnalati, descritti con cura e poi seguiti nel tempo. Per farlo si possono inserire dati e risposte dei pazienti a specifici questionari nella piattaforma studiata ad hoc.
Basandosi tanto su quanto hanno visto e stanno vedendo quanto su ciò che è riportato in letteratura, i medici del Beth Israel Hospital e del Columbia University Medical Center di New York hanno pubblicato su Nature Medicine una delle più complete disamine dei molteplici effetti del Sars-CoV 2. Polmoni, cuore, cervello e sistema nervoso periferico, cuore e sistema cardiovascolare, cute, occhi, pancreas, fegato, reni, vasi: non c’è tessuto non interessato, probabilmente a causa dell’estesa infiammazione causata dal virus, al punto che tutti ritengono ormai il Covid 19 una malattia multiorgano.
Tra i gli organi nei quali si va a insediare il Sars-CoV 2 ci sono anche l’orecchio medio, insieme al mastoide (la prominenza ossea adiacente). L’hanno scoperto i medici della Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora, che hanno riportato su JAMA Otolaryngology, Head and Neck Surgery quanto visto in due pazienti su tre. Gli autori invitano pediatri e otorinolaringoiatri alla massima prudenza in caso di procedure mediche.
Il motivo perché la malattia colpisce virtualmente quasi ogni organo e tessuto – lo si è capito presto – risiede in una proteina che tutti esprimiamo in moltissime cellule, in misura diversa da persona a persona e da tessuto a tessuto: il recettore chiamato ACE2, cui il virus si attacca per iniziare la sua invasione. E così ecco spiegati i danni (temporanei) a olfatto e gusto (di ACE 2 sono ricche le mucose nasali e orofaringee), quelli alla vista, alle fibre nervose, e poi al cuore, ai reni, al fegato, all’intestino, al pancreas, ai vasi, oltreché, naturalmente, a polmoni, bronchi e vie aeree nel loro insieme. Secondo una sintesi di 100 milioni di documenti di ogni tipo relativi al virus pubblicata su ELife, continuano ad aumentare le nuove localizzazioni della malattia.
Una disamina tra le più complete dei possibili effetti del virus è giunta pochi giorni fa da uno studio autoptico condotto dai patologi dell’Università di Gottinga, in Germania, su 27 cadaveri, pubblicato sul New England Journal of Medicine: il Sars-Cov 2 è stato rinvenuto non solo nei polmoni ma anche nel cervello, nel sangue, nel fegato, nel faringe e nei reni delle persone decedute.
Stanno poi aumentando sempre di più le segnalazioni, riassunte in un articolo di Nature, relative a un altro fatto inquietante: il coronavirus può scatenare il diabete di tipo 1, autoimmune, perché colpisce direttamente le cellule che producono insulina. Lo si è visto su pazienti, su modelli animali e su modelli in vitro.
Ben nota è poi, ormai, la forma gastrointestinale, che si manifesta in un malato su tre e che è stata descritta in una casistica italiana di oltre 300 pazienti pubblicata su Clinical Gastroenterology and Hepatology.
Analogamente, tra gli organi più colpiti ci sono i reni: nell’analisi di mille pazienti ricoverati a New York , pubblicata sul British Medical Journal, il 78% dei malati arrivati in ospedale è andato incontro a gravi danni, che hanno richiesto spesso la dialisi.
Sono poi stati ormai dimostrati i danni a tutto il sistema dei vasi e al cuore (il virus può dare gravi aritmie) e persino alla cistifellea.
Infine, lo stesso quadro multiforme sta emergendo da numerosi studi sperimentali, condotti in quelli che vengono chiamati organoidi. Si tratta di strutture tridimensionali realizzate con cellule staminali di diverso tipo, che crescono e si differenziano grazie a un bioscheletro e a opportuni mezzi di coltura, fino a dare masse di cellule che presentano molte delle caratteristiche degli organi di riferimento. Come ha ricordato Nature in un recentissimo articolo che riassume gli ultimi risultati pubblicati, pur con tutte le cautele del caso (mancano gli effetti determinati dal fatto che nel corpo umano gli organi non sono isolati ma immersi in un contesto assai complicato) questi studi stanno confermando che il Sars-CoV 2 è in grado di infettare moltissimi distretti corporei.
Gli organoidi hanno confermato quanto già osservato clinicamente: il Sars-CoV 2 è molto abile, quando si tratta di infettare l’intestino. I ricercatori dell’Università di Rotterdam, in Olanda, hanno pubblicato su Science quanto osservato nei loro organoidi di enterociti (le cellule intestinali). Una volta introdotto, il virus si replica in fretta e costituisce abbondanti riserve di particelle virali. Lo studio ha confermato anche, indirettamente, che gli organoidi evoluzione delle colture cellulari bidimensionali, sono un valido modello per studiare il coronavirus.
Lo stesso si è visto, del resto, con organoidi di cuore coltivati dai ricercatori del Cedars-Sinai Board of Governors Regenerative Medicine Institute, che hanno riferito su Cell Reports Medicine che il virus infetta i cardiomiociti (le cellule cardiache) e si replica perfettamente nel muscolo cardiaco, alterandone il battito dopo sole 72 ore dall’infezione. Fatto che spiega perché tanti pazienti hanno avuto pericolose fibrillazioni e patologie cardiache di diverso tipo. Non solo. Anticorpi anti ACE2 si sono dimostrati in grado di attenuare molto l’effetto del virus: anche in questo caso ACE2 è la proteina decisiva. Anche per quanto riguarda il cervello, gli organoidi hanno dato una mano a confermare le osservazioni cliniche e sperimentali.
Come riferito dai ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora su ALTEX, infatti, il Sars-CoV 2 infetta efficacemente le cosiddette Brain-Spheres, organoidi messi a punto 4 anni fa dalla stessa università, standardizzati e oggi considerati validi strumenti per studiare diverse patologie del sistema nervoso. In particolare il virus agisce distruggendo, con la grave infiammazione che provoca, la barriera emato-encefalica che dovrebbe proteggere il cervello, e andando a legarsi con i recettori ACE 2 presenti anche in quei tessuti.
Chi fuma sigarette o anche e-cig è molto più a rischio di gravi conseguenze, se contrae il Sars-CoV 2. Non solo perché i suoi polmoni sono già compromessi, e possono, più di quelli di chi non fuma, riportare conseguenze irreversibili, ma anche perché la sua coagulazione del sangue è alterata. E questo, a sua volta, ha grande influenza sui danni neurologici e vascolari tipici del Covid 19. I ricercatori dell’Università del Texas affrontano estesamente l’argomento in base a quanto osservato nei loro pazienti in uno studio pubblicato sull’ International Journal of Molecular Sciences.
Le conseguenze a lungo termine del Covid 19 dopo la fase acuta iniziano a essere più chiare, via via che si allunga il follow up di chi è guarito. Uno studio pubblicato dai medici del Policlinico Gemelli di Roma su JAMA, e condotto su 143 pazienti mostra che, a due mesi dalle prime manifestazioni della malattia, solo il 12% dei guariti è davvero tale. Un terzo continua ad avere uno o più sintomi, e più della metà ne ha 3 o più.
Negli stessi giorni, diversi altri ricercatori e clinici si sono occupati del tema, perché le conseguenze possono essere estremamente varie, come ben illustra il British Medical Journal in un dettagliato riassunto che fornisce, con tanto di disegni, anche indicazioni tanti per i medici quanto per i pazienti. Più nello specifico, si stanno moltiplicando le segnalazioni di malattie autoimmuni insorte dopo la fase acuta, spesso atipiche.
Gli specialisti del Montefiore Medical Center di New York hanno visto, su un centinaio di malati, che aumenta molto la presenza di marcatori del lupus eritematoso sistemico, forse la peggiore tra tutte le malattie autoimmuni, e che una delle conseguenze più diffuse, in chi è positivo a questi marcatori, sono i trombi, mentre quelli dell’Ospedale Garibaldi di Catania hanno riferito, sugli Annals of Internal Medicine, la storia di tre pazienti che hanno sviluppato una miastenia grave, patologia autoimmune neuromuscolare. Un po’ ovunque, oltre ai gruppi di supporto e di auto-aiuto, stanno nascendo centri clinici per seguire nel tempo questi pazienti.
Finalmente lo si inizia a capire, almeno per una parte di coloro che si ammalano gravemente non perché la loro salute è compromessa da altre patologie, o perché il loro sistema immunitario è lento e meno efficace a causa dell’età, ma per altri motivi finora ignoti.
La causa dell’amplissima varietà di reazioni all’infezione da Sars-CoV 2 sarebbe da ricercare, almeno in parte, nei geni e, in particolare, in alcuni di essi strettamente associati – in vario modo – agli elementi del sistema immunitario o a effetti ancora poco noti. Lo hanno dimostrato tre studi molto importanti susciti in contemporanea sulle due riviste scientifiche più accreditate, Science e Nature, nei quali ricercatori di decine di centri di ricerca e clinici, molti dei quali in Italia, hanno concentrato la loro attenzione sul genoma dei malati più gravi, per capire se ci fosse qualcosa di specifico. Il coordinatore dei primi due è Jean-Laurent Casanova, ricercatore dell’Howard Hughes Medical Institute della Rockefeller University, che a febbraio ha iniziato a raccogliere i campioni dei malati che stavano peggio con l’intenzione di controllare l’espressione di 13 geni associati alla risposta ai virus influenzali e, in particolar modo, alla produzione di interferoni, molecole che l’organismo utilizza con antivirali e antinfiammatori naturali. L’obbiettivo era trovarne 500, ma in agosto ce n’erano già 1.500, e oggi si va per i 3.000. Come riferito nel primo articolo, 23 dei 659 pazienti studiati (cioè il 3,5% del totale) aveva un difetto proprio nell’espressione di interferoni. Ciò spiega perché queste persone possano difendersi in modo meno efficiente dal coronavirus.
Questa scoperta, però, ha suggerito a Casanova di cercare anche in un’altra direzione: l’autoimmunità. E’ noto infatti da tempo che in alcune malattie autoimmuni, nelle quali cioè la produzione di anticorpi è rivolta verso lo stesso organismo, ci sono anche autoanticorpi contro gli stessi interferoni. Nel secondo studio, quindi, i ricercatori hanno controllato la presenza di questi autoanticorpi in 987 pazienti, e li hanno trovati in 101, per lo più (nel 94% dei casi) di sesso maschile. Tutto ciò ha diverse conseguenze. Innanzitutto si potrebbero analizzare tutti coloro che si ammalano con sintomi per verificare qual è il loro assetto genetico e avere quindi una prognosi precisa dell’evoluzione della malattia, nonché la possibilità di definire per tempo un piano di cura personalizzato.
Poi ci sono fondati motivi per controllare, nell’ambito di studi clinici ad hoc, le terapie che agiscono sugli interferoni: ne esistono già diverse utilizzate nel campo dell’autoimmunità, così come esistono singoli interferoni che potrebbero colmare le carenze dovute ai geni: se ne conoscono 17 diversi, alcuni dei quali somministrabili per via iniettiva. Un’altra possibilità è la plasmaferesi, una sorta di filtraggio del plasma con il quale si sottraggono appunto al plasma gli autoanticorpi presenti. Un ulteriore tassello, poi, è quello fornito dal terzo studio, uscito su Nature, che ha portato a una scoperta sorprendente: una parte di chi è più suscettibile all’infezione deve la sua maggiore vulnerabilità a geni che appartenevano all’uomo di Neanderthal o di Denisovan o più probabilmente a ibridi tra i due, che abitavano nell’Europa del Sud tra i 50 e i 60.000 anni fa.
Questa volta i coordinatori sono i ricercatori della Human Evolutionary Genomics Unit della Okinawa Institute of Science and Technology Graduate University (OIST) giapponese insieme a quello del Max Plank Institute di Leipzig, in Germania, guidati da Svante Paabo, uno dei massimi esperti mondiali di paleogenetica e paleoantropologia, che hanno concentrato la loro attenzione sul cromosoma 3. Nell’ambito della COVID-19 Host Genetics Initiative, infatti, hanno analizzato quello di oltre 3.100 malati con Covid 19 in diversi livelli di gravità, e trovato che chi possiede un lungo frammento (di poco meno di 50.000 basi) che arriva direttamente dagli antenati neanderthaliani, e, in particolare, una tra le sue 13 possibili varianti, è destinato a stare peggio di chi non ha le stesse varianti.
Per i primi, infatti, il rischio di aver bisogno della ventilazione assistita è triplo rispetto ai secondi, e molti indici sono peggiori. Non si sa esattamente in che modo questo frammento di DNA influenzi la sensibilità all’infezione da Sars-CoV 2, ma si sa, per esempio, che è praticamente assente in Africa e nelle popolazioni che vivono in estremo oriente, mentre in quelle dell’oriente meridionale è presente in un abitante su due, e in Europa nel 16% della popolazione. E si sa che questo trova riscontro nella gravità della malattia nelle stesse zone. Ora i ricercatori stanno cercando di capire perché questi geni preistorici siano così importanti, ed eventualmente come intervenire in chi li ha nel suo genoma.
CONTAGIO
Il virus Sars-CoV-2 si trasmette soprattutto attraverso il contatto con una persona malata o che comunque ha contratto l’infezione. La via di trasmissione più semplice sono le goccioline emesse con la respirazione e la saliva, oltre che ovviamente se si tossisce e si starnutisce. Il virus può passare anche attraverso le mani, ovviamente se non si lavano frequentemente, la bocca il naso e gli occhi. Per questo occorre prestare attenzione alle superfici su cui il virus potrebbe rimanere dopo il passaggio di un soggetto che ha contratto l’infezione. Sono stati riportati aneddotici casi di contagio per via fecale (Ecdc). Sul fronte degli alimenti, va ricordato che le infezioni respiratorie normalmente non si trasmettono con i cibi, ma occorre sempre mantenere la massima igiene separando cibi crudi e cotti. Al momento, infine non risulta che il virus si trasmetta attraverso il contatto con animali domestici.
Per quanto riguarda il periodo di massima infettività da parte della persona che ha contratto l’infezione pare che il picco d’infettività si abbia nel primo giorno di comparsa dei sintomi e si mantenga alto nei giorni immediatamente successivi. La ricerca è coordinata da Luca Ferretti dell’Università di Oxford ed è apparsa sulla piattaforma Medxriv
In chiave sperimentale pare che occorrano anche limitate quantità di virus per indurre infezione, anche se quanto più la carica virale è alta tanto maggiori sono I rischi. Altro parametro importante è il tempo di esposizione al virus. Quanto più si rimane a stretto contatto con un soggetto infetto, tanto maggiori sono i rischi. Alcuni studi, appunto sperimentali, indicano che basterebbero anche meno di 1000 particelle virali per contagiare una persona. Ovviamente, come detto, la carica virale del soggetto che può trasmettere il virus è fondamentale.
Ovviamente il virus si mantiene nell’aria e si trasmette all’interno di ambienti chiusi. Basti pensare che ad oggi si sa che le particelle virali molto piccole possono permanere anche per ore nell’ambiente come aerosol. Per questo nei negozi, sui mezzi di trasporto e più in generale dove non è possibile un adeguato ricambio d’aria sono indicate le mascherine, che hanno lo scopo di proteggere gli altri da eventuali emissioni da bocca e naso, oltre che i guanti per preservare gli oggetti. L’Istituto superiore di sanità raccomanda in questo senso di garantire un buon ricambio d’aria in tutti gli ambienti in abitazioni uffici e ovunque sia possibile. Aprire regolarmente le finestre è estremamente utile per “cambiare aria”. Ovviamente occorre anche ricordare che il lavaggio e la disinfezione delle mani sono la chiave per prevenire l’infezione, anche attraverso i possibili contatti con oggetti su cui il virus può permanere.
Per quanto riguarda gli ambienti a rischio ed in particolare scuole materne e primarie, un piccolo studio americano, condotto da esperti dell’Università dello Utah e dal Centro del controllo delle malattie (Cdc) degli Usa condotto su tre microepidemie da Sars-CoV-2 in età pediatrica indica che i bimbi molto piccoli non sarebbero in grado di trasmettere efficacemente il virus, a fronte di una trasmissione simile a quella degli adulti dei bambini più grandicelli, in età di scuola elementare. Si tratta solamente di 12 casi osservati ma l’indicazione è interessante.
La trasmissione in ambienti chiusi è molto più probabile rispetto a quanto può avvenire all’aperto, specie se si sta a distanza. Ma anche attraverso aerosol. Nell’aerosol la permanenza del Sars2-COv-19 può essere anche di tre ore, seppur in quantità ridotte, come mostra uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine.
Come se non bastasse gli scienziati del MIT di Boston coordinati da Lydia Bourouiba hanno segnalato su JAMA la capacità del ceppo virale responsabile della pandemia che stiamo affrontando di arrivare anche a diversi metri, ovviamente sulla spinta della potente espirazione che accompagna uno starnuto. Per quanto riguarda gli ambienti chiusi, occorre mantenere la giusta distanza al ristorante, sui luoghi di lavoro, tra gli operatori sanitari e a domicilio.
L’Istituto superiore di sanità raccomanda in questo senso di garantire un buon ricambio d’aria in tutti gli ambienti in abitazioni uffici e ovunque sia possibile. aprire regolarmente le finestre è estremamente utile per “cambiare aria”. Ovviamente occorre anche ricordare che Il lavaggio e la disinfezione delle mani sono la chiave per prevenire l’infezione, anche attraverso i possibili contatti con oggetti su cui il virus può permanere.
Uno dei casi più noti e drammatici è stato quello del coro di Mount Vernon, stato di Washington: lì il 10 marzo 61 coristi si sono ritrovati per più di due ore a provare, mangiare, stare insieme. Ma uno di loro da tre giorni aveva i sintomi di quello che pensava essere un raffreddore. Entro poche settimane i malati erano 53, tre dei quali ricoverati e due deceduti, stando a quanto riferito dai CDC, che hanno ricostruito accuratamente la vicenda.
Il caso dei coristi non è certamente l’unico: secondo gli esperti della London School of Hygiene & Tropical Medicine (LSHTM), che hanno creato un database apposito nel quale sono già stati censiti più di 60 episodi, un superdiffusore in un dormitorio di migranti di Singapore ha infettato 800 persone, una persona presente a un concerto a Osaka, in Giappone, 80, mentre in Sud Corea da un corso di Zumba sono arrivate 53 infezioni. Un altro caso è poi quello di Israele, dove in base a un’indagine genetica svolta dall’Università di Tel Aviv su 200 malati, l’80% dei nuovi malati si infetta dal 10% di persone contagiate.
Una delle caratteristiche che rende ostica la lotta al Sars-CoV 2 è proprio questa: alcune persone – per questo sono chiamate superdiffusori – diffondono il virus in modo più che efficiente, mentre altre quasi per nulla, e solo ora si sta iniziando a capire meglio perché.
Per vederci più chiaro, i virologi fanno riferimento all’ormai noto indice R, che indica quante persone un contagiato può infettare. Stando a quanto riferito su Science, in natura il numero associato a Sars-CoV 2 è 3, ma nelle realtà si va da zero a 3 appunto, per la grande variabilità del fenomeno. Molti esperti valutano anche un altro parametro, chiamato k, che indica la capacità di diffusione del virus: più basso è k, minore è il passaggio. Nel caso del Sars-Cov-2, secondo recentissime stime k sarebbe attorno allo 0,1%, simile a quello della SARS, più basso di quello della MERS e in linea con i dati israeliani (sul fatto che il 10% dei contagiati infetterebbe il restante 80%). Se questo valore fosse confermato, significherebbe che la trasmissione, in realtà, non è molto efficiente, che la maggior parte delle catene di contagio si spengono da sole, e che il virus, per avere successo una volta, deve entrare in un nuovo territorio almeno 4 volte: un dato rassicurante.
Ma a parte le caratteristiche del virus, contano anche altri elementi quali la modalità di trasmissione. Oltre alle droplets, infatti, sembra esserci una trasmissione attraverso particelle di saliva più piccole, che occasionalmente potrebbero creare grandi problemi.
C’è poi l’ospite: molto dipende dal suo sistema immunitario, dalla sua carica virale, da dove, nel suo organismo, è concentrato il virus, da quanti recettori (gli ormai noti ACE2) per il virus esprime e poi da che cosa fa quando incontra altre persone (cantare è altamente sconsigliato), da quanto si lava le mani, dal tipo di vita sociale che conduce e così via.
Tra le certezze raggiunte vi è il fatto che questo virus ama particolarmente le situazioni di affollamento e di contatto (come le classi di ballo al chiuso, i bar-karaoke, i macelli e così via): in un’indagine cinese su 318 focolai, solo uno aveva avuto origine all’aperto, mentre secondo uno studio giapponese il rischio al chiuso è 19 volte più alto di quello all’aperto.
L’arma più efficace, in attesa di capire ancora meglio tutti i passaggi, resta la prevenzione attraverso l’individuazione e il tracciamento di tutti i contagiati ma, soprattutto, dei superdiffusori, come avviene in Corea del Sud. Da quel paese giunge, tra le altre, una storia emblematica: un uomo risultato poi positivo al tampone si era recato in diversi locali notturni; analizzando migliaia di contatti avuti dal paziente, nelle ore successive al suo tampone sono stati trovati 170 casi positivi.
Il tracciamento, come si vede anche in Italia con lo scarso successo della app Immuni, è meno facile di quanto si potrebbe pensare, e anche per questo distanziamento e igiene accurata restano, per ora, strumenti di prevenzione ineludibili.
Fino dai primi giorni, una delle domande più pressanti è stata quella relativa al ruolo degli asintomatici, che con ogni probabilità hanno contribuito non poco alla diffusione del Sars-CoV 2 in Europa prima e nel resto del mondo poi. Oggi la scienza ha raggiunto alcuni punti fermi grazie agli studi su popolazioni specifiche. In particolare, in Islanda, dove è attivo un grande progetto di analisi di tutta la popolazione grazie alla collaborazione con la DeCode, azienda del gruppo Amgen che sta effettuando anche la mappatura genetica degli islandesi, si è capito che circa una persona contagiata su due non ha alcun tipo di sintomo, e molte altre delle restanti ne hanno di lievissimi. Questo dato, contenuto in uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine che descrive con molta precisione il quadro complessivo della diffusione del virus, conferma altre osservazioni che sono giunte a conclusioni analoghe, riprese anche, per esempio, sul sito dei CDC.
Ma la questione più importante è: quanto sono pericolosi gli asintomatici? Quanto efficacemente diffondono il virus? La domanda, di cui ha scritto anche Bill Gates sullo stesso New England Journal of Medicine, è stata oggetto di molte indagini, dai primi due casi certi segnalati sulla stessa rivista, relativi a due cittadini rientrati in febbraio in Germania dalla Cina, uno dei quali senza sintomi e l’altro con sintomi lievissimi, a un lavoro olandese pubblicato su MedRivX nel quale, su 91 cittadini di Singapore, tra il 48 e il 66% aveva contratto il virus in contatti con persone asintomatiche o lievissimamente sintomatiche. Sempre sullo stesso sito, inoltre, un altro studio internazionale condotto in Cina segnalava, in un cluster di 135 casi, un’origine da contatti con persone asintomatiche compresa tra il 67 e il 72%.
Uno studio arriva da Vo’ Euganeo, tra i primi focolai italiani, ed è appena stato pubblicato su Nature. Lo studio condotto dall’Università di Padova sui risultati dei primi due giri di tamponi sulla popolazione del paese ha rivelato che più del 40% delle infezioni da Covid-19 sono state asintomatiche. La ricerca è a firma di Andrea Crisanti e ha rappresentato la base scientifica per le azioni di sorveglianza attuate dalla Regione Veneto. Essa dimostra come non si rilevi alcuna differenza statisticamente significativa nella carica virale delle infezioni sintomatiche rispetto a quelle asintomatiche. Risultato che, affermano gli autori, implica che, potenzialmente, anche le infezioni asintomatiche o paucisintomatiche potrebbero contribuire alla trasmissione di Sars-CoV-2.
Negli ultimi giorni è arrivato poi uno studio, pubblicato su Clinical Infectious Diseases, importante perché condotto su 14.000 persone poste in quarantena in Vietnam. Tra le 49 positive, metà non aveva sintomi ma, soprattutto, almeno due sono state infettate da altre due persone che non ne avevano.
Resta insomma da capire quanto e in quali condizioni ideali una persona contagiata ma priva di sintomi o con sintomi talmente lievi da essere difficilmente riconosciuti come tali possa infettarne altre, ma sul fatto che la trasmissione dagli asintomatici, ancorché in misura nettamente inferiore rispetto a quella dai sintomatici, sia possibile, sembrano esserci pochi dubbi.
Non necessariamente dopo la scomparsa dei sintomi un tampone positivo indica la presenza di virus vitali e soprattutto capaci di infettare. Lo dimostrano ormai diversi studi, e lo sostiene indirettamente l’OMS quando afferma, nelle nuove linee guida, che non sono necessari due tamponi dopo la fine della sintomatologia, ma bastano tre giorni di convalescenza. Tra gli studi pubblicati, uno degli ultimi – uscito su Clinical Infectious Diseases e condotto da virologi canadesi sembra molto chiaro: cellule di primate messe a crescere con 90 campioni di pazienti positivi, dopo otto giorni non hanno mostrato alcuna capacità infettiva.
Nelle settimane precedenti altre ricerche, questa volta condotte su persone, erano giunte a conclusioni analoghe. Per esempio, secondo un’indagine effettuata a Hong Kong su 77 coppie di persone nelle quali una era stata infettata e l’altra era stata la fonte del contagio, uscita su Nature Medicine si affermava che il periodo infettivo inizia 2,3 giorni prima dell’insorgenza dei sintomi dell’infettante, ha un picco a 0,7 giorni e un calo entro altri 7 giorni.
In un’altra analisi, questa volta uscita su JAMA Internal Medicine, ed effettuata su 100 malati e oltre 2.700 loro contatti, i virologi di Taiwan hanno dimostrato che le infezioni erano avvenute al massimo entro cinque giorni dall’inizio dei sintomi nel contagiato, e mai oltre.
Lo stesso tipo di dato si è visto andando a controllare i tamponi: in uno studio effettuato a Singapore su 73 malati e pubblicato sulla rivista ufficiale del CDC di Atlanta, MMWR, quando la carica virale al tampone era bassa, o dopo 11 giorni di malattia, non è stato possibile isolare o coltivare il virus.
L’insieme dei risultati raccolti finora indica insomma che la contagiosità inizia poco prima dell’insorgenza dei sintomi, raggiunge un picco entro poche ore dagli stessi e diminuisce rapidamente intorno alla fine della prima settimana di malattia. Il virus vitale non viene mai trovato dopo la seconda settimana di malattia, nonostante la persistenza del rilevamento di RNA virale nel tampone.
Lo ha confermato anche una recente, ampia revisione delle prove disponibili condotta in Irlanda dalla Health Information and Quality Authority che ribadisce che anche se l’RNA virale può essere rilevabile per diverse settimane dall’inizio della malattia, l’infettività diminuisce dopo 7-10 giorni.
Per quanto riguarda i casi, segnalati un po’ ovunque, di persone il cui tampone diventa nuovamente positivo dopo essere stato negativo e dopo la fine dei sintomi, non ci sono certezze assolute, anche se non pare ci siano grandi rischi. Uno dei rapporti più completi sul tema, pubblicato dai CDC sudcoreani e relativo a oltre 470 casi di ri-positivizzazione, ha concluso che l’esito del tampone era sempre dovuto a materiale virale morto e in nessun caso a virus vitali. Nelle stesse persone, del resto, non è stato isolato, dalle colture dei liquidi biologici, alcun virus vivo, né sono emerse prove della contagiosità. Al contrario, il 96% di questi malati aveva anticorpi anti Sars-Cov 2 neutralizzanti.
Il Sars-CoV 2 può passare la placenta ed essere trasmesso al feto. La buona notizia, certificata in uno studio pubblicato su Nature Communications e derivante dallo studio del caso di una donna francese, è che non ci sono pericoli per lo sviluppo del feto. A conclusioni simili erano giunti uno studio americano su un altro caso, pubblicato su Pediatric Infectious Diseases Journal e uno italiano su 31 bambini, condotto dagli specialisti dell’Ospedale San Gerardo di Monza, dell’Ospedale Sacco di Milano e del Policlinico San Matteo di Pavia, uscito per ora sul sito senza revisione MedXRiV.
ANIMALI
Ci sono state alcune segnalazioni sporadiche di animali domestici infettati dai padroni, e finora si è sempre ritenuto che il passaggio potesse avvenire appunto solo da uomo a pet, e che questa fosse un’evenienza rara. Ora però uno dei primi studi sistematici condotti sul tema, italiano, pubblicato prima delle revisione di BioXRiv dai ricercatori di alcune facoltà di veterinaria insieme ad alcuni colleghi britannici, aiuta a capire meglio cosa succede. Sottoponendo a tampone 540 cani e 277 gatti del Nord Italia, tra marzo e maggio, si è infatti visto che nessuno di loro era positivo. Tuttavia, le indagini sierologiche hanno mostrato poi che circa il 3% dei cani e il 4% dei gatti aveva anticorpi specifici, a riprova di un avvenuto con tatto, probabilmente nei mesi precedenti. Intanto, si fa più chiara la situazione dei gatti, in base a uno studio su quelli di Whuan pubblicato su Emerging Microbes & Infections. Gli anticorpi specifici sono stati cercati in un centinaio di gatti tra randagi e domestici, selezionati anche in gattili, veterinari e case con malati di covid 19: sono trovati in 15, il che dimostrerebbe una diffusione maggiore del previsto.
Certamente, e iniziamo solo ora a capire quanto. Lo studio principale, da questo punto di vista, è stato pubblicato su PNAS e dimostra che i vertebrati possibili vettori sono addirittura 410: tutti quelli che hanno, come l’uomo, i recettori ACE2 cui si attacca il Sars-CoV 2 e gli altri coronavirus. Recenti focolai hanno poi fatto emergere la pericolosità dei visoni o, per meglio dire, degli allevamenti di visoni. In uno studio pubblicato su BioRxiv e condotto in 16 allevamenti olandesi, dei 97 lavoratori testati, 66 sono risultati positivi. In base ai test genetici, sarebbero stati gli uomini a infettare i visoni, ma poi dagli animali la trasmissione si sarebbe diffusa ad altri lavoratori, in un loop che ora stanno cercando di fermare.