Stiamo vivendo una nuova fase dell’esperienza emergenziale da Covid. Metabolizzata la paura del contagio, viviamo nell’ottica del contenimento della diffusione e della prevenzione. Banchi singoli per gli studenti, estensione delle modalità di remote working, rilancio (e sbilancio in molti casi) della digitalizzazione come espressione del distanziamento sociale.
Che sia ancora la fase del rischio di contagio o che sia la fase del contenimento della diffusione, quella che stiamo vivendo è la realtà della psicosi da Covid.
Il Covid si è insinuato in tutti i nostri organismi costringendoci a cambiare i paradigmi della nostra esistenza: in famiglia, nel lavoro, nello svago e nel divertimento, perfino nell’attività ludica. Il Covid sta quindi colpendo tutti noi, a prescindere che indossiamo una mascherina protettiva (il cui valore simbolico è fin troppo evidente), che ci laviamo le mani (idem, come sopra, cui aggiungere la simbologia liturgica religiosa), che siamo rinchiusi in casa, che guardiamo con diffidenza chi ci sta accanto.
Occorre fare qualcosa, non solo per proteggere noi dagli altri e gli altri da noi, come ci si ostina a pensare (poco) e a dire (molto) da parte di tutti, scienziati, virologi, politici, subrette, nani e ballerine. Occorre proteggere il nostro modo di vivere e quindi, prima ancora, il nostro modo di pensare.
Dobbiamo pensare che da ora in avanti occorrerà vivere in ambienti salubri, completamente sanificati (prima e dopo) non solo e non soltanto allo scopo di proteggerci, quanto di consentirci di vivere. E se viviamo noi, vive la nostra economia e con essa la nostra speranza e fiducia e quindi il nostro futuro.
Se la pandemia ha cambiato il nostro paradigma di vita, dobbiamo fare in modo che il cambiamento sia permanente, in modo da upgradare il nostro modello di vita.